Svolta della banca centrale americana (FED). Lo scorso 27 Agosto Il Governatore Jerome Powel ha deciso di rimuovere il vincolo del 2% di inflazione dando priorità all’occupazione ed alla crescita economica.

Questo significa che non appena l’economia americana inizierà correre, sotto la spinta dei bassi tassi di interesse e delle agevolazioni fiscali in atto, l’inflazione supererà il 2% ma a differenza del passato la FED non aumenterà i tassi di interesse e lascerà che la crescita economica si rafforzi anche con inflazione “moderatamente alta”.

Cosa vuol dire questo? Che una volta tanto, ci si preoccupa più dell’economia reale, dell’occupazione e dell’industria che non delle banche e del settore finanziario.

Infatti, in un mondo caratterizzato da bassi tassi di interesse qual è quello nel quale ormai da anni viviamo, un tasso di inflazione superiore al 2% non è un problema per chi si indebita bensì per chi finanzia. Infatti, è ragionevole attendersi che chi presta denaro riceverà un rendimento inferiore al tasso di inflazione e questo eroderà il suo capitale a tutto vantaggio di chi si indebita. Un trasferimento quindi dalle rendite finanziarie ai profitti industriali.

In più occasioni ho ricordato che la deflazione è un bene per i creditori ed un male per i debitori, mentre l’opposto accade per l’inflazione. Facile capire che il nuovo corso della politica monetaria USA porterà quindi ad un trasferimento di ricchezza dal settore finanziario, che è tipicamente creditore netto, al settore industriale e familiare, che è invece debitore netto.

Dunque, la FED inaugura un nuovo corso, passando da un sistema (semi-) deflattivo ad un sistema inflattivo. Crescerà l’inflazione ma crescerannoch anche occupazione e salari, così come il PIL ed altre variabili reali. C’è chi vi ha anche letto un esplicito sostegno della FED al programma economico di Trump, cioè tassi reali negativi per stimolare gli investimenti e la domanda interna così da ridurre il disavanzo commerciale, anziché puntare su un dollaro forte che consenta di esportare deficit commerciali (e campagne militari nel mondo…).

Insomma, la finanza internazionale è ormai ufficialmente in piena era glaciale, l’era dei tassi reali negativi (il tasso reale è pari al tasso nominale meno l’inflazione). La FED ne ha preso atto e ha deciso di puntare sul rilancio del sistema economico americano supportando le politiche del Governo.

Chi non potrà ignorare questo cambio di passo è certamente la BCE, la cui politica monetaria finora è stata ispirata a principi diametricalmente opposti: controllo ossessivo dell’inflazione, deflazione salariare, disoccupazione strutturale e avanzi primari. In una parola: austerità.

Tra le ragioni per cui la BCE dovrà rispondere in fretta c’è il cambio dollaro/euro. Se la BCE non farà nulla, l’Euro sarà spinto a livelli di estrema sopravvalutazione (con un cambio verso dollaro potenzialmente compreso tra 1,30-1,50) che accentuerà il declino delle esportazioni dell’Eurozona verso il resto del mondo, schiacciata da un lato dalla crescita prorompente dell’export cinese e dall’altro dalla diminuzione dell’import americano che seguirà alla svolta della Fed ed alle politiche protezionistiche di Trump. Questo implicherà un’accelerazione dei processi di de-industrializzazione, di delocalizzazione e di disoccupazione strutturale.

Ci sono margini di manovra per la BCE? Teoricamente si, ma dubito che verranno esercitati.

La BCE ha lanciato qualche timido segnale annunciando €1,3 miliardi di piano di riacquisto di titoli di Stato ed offrendo quindi alle tesorerie degli Stati la possibilità di indebitarsi a tasso zero (la quota riservata all’Italia è di oltre 200 miliardi), ma non ha mai messo in discussione la supremazia delle variabili monetarie (inflazione) su quelle reali (crescita e occupazione).

Questo poco che la BCE ha fatto, peraltro, non è stato sfruttato da Paesi come l’Italia, com’è successo nello scorso mese di Giugno quando Gualtieri ha scientemente rinunciato ad emettere €100 miliardi di BTP richiesti dal mercato per spingere il Paese verso il MES ed il Recovery fund (BTP che sarebbero stati in gran parte monetizzati, e quindi annullati, dalla BCE).

Come alternativa alla BCE si poteva adottare il modello tedesco della banca pubblica: il Tesoro tedesco garantisce la KfW, una sorta di banca pubblica (Kreditanstalt für Wiederaufbau – lstituto di Credito per la Ricostruzione, gemello della nostra Cassa Depositi e Prestiti) la quale, a sua volta, presta direttamente denari alle imprese ed alle famiglie.

Ma neanche questo è stato fatto, prediligendo invece una soluzione senza precedenti, per cui il Tesoro italiano garantisce le banche private affinché queste finanzino imprese e famiglie (forse per quell’atto d’amore di cui Conte ha fatto pubblico appello…). Una soluzione che non può funzionare come ho spiegato altrove a causa delle regole di Basilea sui vincoli all’attività creditizia ai quali un prestito a privati è soggetto anche se assistito da garanzia statale.

E’ la ricetta liberista di stampo anglosassone fornita da Draghi: coinvolgere gli Stati come garanti del sistema bancario privato affinché quest’ultimo presti soldi all’economia reale, escludendo qualsiasi ruolo dello Stato sia come presenza nell’industria strategica che come controllo del credito, in modo che il gioco resti tutto interno al perimetro privato: banche private che allocano risorse su imprese private (in barba all’art. 47 della Costituzione che pone la Repubblica nel ruolo di controllore del credito).

Dunque, in Italia più buio non poteva essere. Mentre la principale banca centrale al mondo indica la direzione della crescita, l’Eurozona resta prigioniera di modelli anacronistici, di comportamenti opportunistici da parte del settore finanziario e di palesi atti di servilismo da parte di una mediocre classe politica (soprattutto italiana).

Il vero salto di paradigma in senso keynesiano e costituzionale può solo avvenire se si parte con il piede giusto, e questo non può che essere un modello in cui lo Stato torni a controllare il credito, come avviene almeno in parte in Germania ed in Francia, e certamente ancor di più in Giappone.

Ma i politici italiani continuano a subire il fascino perverso della City di Londra. E’ così più o meno da un paio di secoli, e non credo che la situazione cambierà facilmente anche perché le principali forze di opposizione mostrano idee assai confuse e non sembrano aver compreso il perimetro dell’attuale paradigma, men che meno, quindi, hanno una strategia adeguata per uscirne.

Intanto, mentre il dibattito politico italiano si sclerotizza sulle misure anti-covid e sull’ipocrisia del buonismo radical-chic, il resto del mondo va avanti, lancia nuovi paradigmi economici, ridisegna i confini della geopolitica e lascia sempre di più l’Europa ai margini degli eventi commerciali, politici e militari che accadono nel mondo.